LA MENO PEGGIO

E’ un periodo complicato, è un momento diffcile.

Le feste natalizie sono state pesanti, quest’anno le ho patite ancora di più, sempre con l’ansia di quello che poteva succedere il giorno dopo, sul come si sarebbe mossa la Tata.

La Tata la mia spina nel fianco, il mio pensiero fsso.

La Tata e le sue decisioni che fatico a comprendere e ad accettare, mi sembrano dettate da un impulso, senza guardare avanti, senza guardare oltre il naso.

E io me ne faccio carico, ci sto male, ma dovrei mollare un po’ le redini, non sono la mamma.

Va bene, andiamo oltre.

Il pensiero più grande è per LaMiaMetà.

Le prospettive, dopo il 13 dicembre erano due: o è un tunore nuovo e dobbiamo capire di che genere oppure, se siamo fortunati, è lo stesso tumore, ma che si sta spostando verso altri organi.

Un mese di ansia, di incubi, di paure, di lacrime nascoste, di paura tenuta a bada con tutti i mezzi possibili: LaMiaMamma, LaMiaSorella,gli Amici,

A volte riuscendoci, a volte sprofondando nella paura più folle.

Finalmente il mese è passato e ieri abbiamo fatto i dovuti contolli e visita oncologica per fare il punto della situazione.

E’ rrivata la notizia meno peggio: è lo stesso tumore che ha mestatizzato il fegato, per ora con una sola metastasi pccola che ha permesso l’intervento in termo ablazione.

Poteva andare peggio, ma onestamente ce la saremmo risparmiata, non era il caso di aggiunere una nuova metastasi a quella già presente, che per il momento, preferiscono non togliere, i rischi sarebbero superiore ai benifici.

Non era quello che mi aspettavo, in fondo alla mia mente c’era sempre la vocina che diceva “ci siamo sbagliati  era aolo una ciste”, ci avrei messo una firma lunga da qui a San Luca, ma purtroppo non è andata così.

In tutti questi anni, il gruppo che segue LaMiaMetà, non ha mai sbagliato una diagnosi, hanno sempre trovato una soluzione, sono sempre riusciti a mettere una pezza, ma tutto questo per quanto tempo ancora potrà andare avanti?

Non lo sappiamo, ma siano arrivati al punto di dirci che prendiamo quello che viene di giorno in giorno e passando al meglio tutto il tempo che ci rimane, facendo cose piacevoli, facendo cose che ci fanno stare bene e non ci creano più ansia di quella che già abbiamo

Da oggi dobbiamo, per l’ennesima volta, resettare la nostra vita e crearne una nuova, sperando sia la più lunga possibile.

Lunga vita al lupo.

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Ne vale la pena

Da non credere: me ne sono ricordata! Oggi è il mio secondo zampiversario.

Due anni senza la gamba destra, due anni aggrappata alla vita con tutto quello che è rimasto.

Ricordo bene quando il prof. Ruggieri mi disse che mi avrebbe operato solo se ci fosse stata la concreta speranza di darmi qualche altro anno di vita, altrimenti non valeva la pena affrontare quel calvario e tutti i rischi associati.

Intanto due anni li ho avuti. Impegnativi e faticosi, certo, ma con una qualità di vita assolutamente accettabile per me. Due anni con diversi momenti difficili, ma anche tantissime cose belle.

Non so quanti anni potrò avere ancora, ma comunque vada, ne è valsa la pena, ne vale ancora la pena, ogni giorno.

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Una storia meravigliosa

Sono stata in dubbio per mesi sull’opportunità di raccontare questa storia, perché non sono sicura che alcuni dei protagonisti gradiscano che si parli di loro. Però alla fine ho deciso di farlo, perché le storie belle dovrebbero sempre essere raccontate e in questo periodo buio abbiamo tanto bisogno di tutto quello che fa bene al cuore.
Ma anche dopo aver preso questa decisione, ci ho messo un po’ a scrivere il post, perché ogni volta che ne parlo, o anche solo ci penso, mi commuovo e non è mica facile scrivere con le lacrime che annebbiano la vista!

Questa storia inizia esattamente un anno fa, a dicembre del 2019.
Un collega di lavoro mi aveva accompagnato in ospedale per una delle sedute di fisioterapia e gli avevo parlato della mia intenzione di acquistare un’auto e farla adattare, per poter di nuovo guidare e muovermi in autonomia. Non sapevo di aver piantato il seme di una storia meravigliosa.

Qualche giorno dopo, mentre lavoravo da casa in smart working, mi è arrivato un messaggio dall’ufficio: avevano bisogno di parlarmi. Ok, quando volete! Pensavo che volessero discutere una pratica che stavamo portando avanti in quel periodo. Sbagliavo completamente.
Roberto, il collega che mi aveva accompagnato alla seduta di fisioterapia, voleva sottopormi un progetto che aveva ideato ed elaborato dopo la nostra conversazione. Aveva pensato di proporre ai colleghi dell’ufficio di regalarmi un giorno di ferie ciascuno, per aiutarmi a sostenere le spese di acquisto e adattamento della nuova macchina.
Aveva già parlato con alcuni di loro, ottenendo adesione immediata, e insieme avevano verificato la fattibilità dell’iniziativa con l’ufficio del personale, che aveva confermato la possibilità di convertire i giorni di ferie “regalati” in denaro. Insomma, avevano già studiato tutto, ma voleva il mio consenso prima di procedere ufficialmente.

Non mi ricordo bene il resto della telefonata, perché a quel punto stavo già piangendo come una fontana.
Mi aveva profondamente commosso che volessero aiutarmi, e avevano sottolineato di tenerci molto, e che avessero elaborato una soluzione così originale per farlo. Avrei voluto riuscire a manifestare tutta la gratitudine per quel gesto tanto generoso, ma ero così sorpresa ed emozionata, che credo di essere riuscita a malapena a balbettare un “grazie”.
Ero in attesa dell’esito della prima TAC di controllo dopo l’amputazione, quindi ho chiesto qualche giorno di tempo per dare una risposta, non volevo che avviassero l’iniziativa con il rischio che un eventuale esito sfavorevole facesse saltare il progetto prima ancora di cominciare. Poi le cose sono andate bene e ho dato l’ok.

Non avevo mai calcolato prima quanto potesse valere un giorno di ferie e non l’ho fatto neppure dopo, non era importante. La cosa bellissima era il gesto generoso, il desiderio di aiutarmi a riconquistare una bella fetta di autonomia e di libertà.
Avevo immaginato che forse avrei potuto permettermi un optional in più, la vernice metallizzata o il portellone elettrico, che per me è particolarmente utile.
Di nuovo, sbagliavo clamorosamente.

A inizio 2020 ho cominciato a valutare i vari modelli e a visitare le prime concessionarie, poi è arrivato il lockdown a fermare tutto, ma non tutti si sono fermati: i miei colleghi hanno continuato a portare avanti il loro progetto di solidarietà.
Alla fine di maggio mi è arrivata una telefonata: erano l’amministratore delegato e il responsabile del personale che mi comunicavano il completamento della sottoscrizione, a cui avevano partecipato non solo i colleghi del mio ufficio ma anche quelli che lavorano in centrale, e tante, tantissime persone delle altre aziende del Gruppo. E alla fine, l’amministratore delegato e la proprietà hanno raddoppiato la cifra raccolta.

Quello che mi hanno regalato quelle persone meravigliose non è servito per un paio di optional.
Ci ho pagato più dell’ottanta per cento della macchina e delle spese di adattamento.

L’ho ritirata lunedì sera, con tanta emozione: il valore di questa automobile è infinitamente superiore al suo prezzo.
Non so quanti giorni di ferie siano stati raccolti per raggiungere una cifra così importante, ma devono essere davvero tanti ed è questa la cosa davvero speciale: il pensiero che tutte queste persone abbiano voluto manifestarmi la loro solidarietà mi commuove profondamente.

Non trovo le parole per esprimere la mia gratitudine per chi ha costruito per me questa storia meravigliosa: Roberto, gli altri colleghi e l’amministratore delegato di Zignago Power, il personale Zignago Holding, Zignago Servizi, La Vecchia, Multitecno e Cantine Santa Margherita e la famiglia Marzotto.

Forse alcuni di loro avrebbero preferito non essere citati, ma quello che hanno fatto è davvero straordinario e io credo che dovrebbe fare il giro del mondo.

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Scelgo di sperare

Stamattina ho fatto la TAC e attendo il referto, con un filo di ansia, ma soprattutto con tanta speranza.

Ho scelto di sperare perché amo la vita, amo la mia vita.

Questa vita che mi sono costruita con fatica, superando tante difficoltà. Questa vita che mi ha regalato poco e in cui mi sono dovuta conquistare tanto. Questa vita per cui ho dovuto lottare con le unghie e con i denti. Questa vita che mi ha preso tanto e da cui ho preso tanto. Questa vita in cui ho sempre gioito di ogni conquista e accettato le sconfitte come lezioni per imparare a rialzarmi e tentare di nuovo. Questa vita che, finalmente, è serena e piena di cose buone, perché ho lavorato tanto perché diventasse così. 

Spero di tenermela ancora a lungo, questa vita. Spero di passare ancora tanti anni con Renato e i nostri gatti. Spero di fare ancora tanti progetti per il futuro. Spero di avere un futuro.

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Zampiversario

Ne ho già parlato altre volte, sono pressoché insensibile alle ricorrenze. Magari qualche giorno prima capita che ci penso, ma poi la data fatidica, a meno di non inciamparci sopra per qualche motivo, passa in cavalleria, tutt’al più me ne ricordo qualche giorno dopo, forse.

Vorremo mica interrompere questa gloriosa tradizione di dimenticanze? Non sia mai! Ecco perché giovedì scorso non ho festeggiato il mio primo anno monozampa. 

Sono anche sicura di aver guardato il calendario quel giorno, perché avevo un impegno, ma non ci ho proprio fatto caso, non ho assolutamente realizzato che il tre settembre fosse una data da ricordare. Pazienza. Un anno però merita almeno un bilancio veloce.


1. Sono viva (e scusate se è poco).

2. L’amputazione porta con sé una serie di limitazioni, difficoltà e problemi più o meno sopportabili a seconda delle condizioni meteorologiche, del mio livello di affaticamento, dell’umore, della qualità del sonno, della farfalla che batte le ali dall’altra parte del mondo, della congiunzione astrale e probabilmente di qualche altra decina di fattori che non ho ancora identificato, perché davvero non mi spiego come mai giornate apparentemente simili possano essere eccellenti oppure pessime senza motivi identificabili.

3. Le giornate torride mi hanno fatto penare non poco, ma con le temperature miti di fine estate mi sento molto bene; per sapere se sto effettivamente bene bisogna aspettare ancora un paio di settimane e vedere come andrà la TAC.

4. Ho conquistato un buon grado di autonomia, che subirà un drastico incremento quando arriverà la macchina e potrò uscire anche da sola.

5. Dovrei fare più movimento e perdere qualche chilo, ma non ho la sindrome di Wonder Woman e non aspiro a compiere imprese straordinarie: correre una maratona, andare sulla Luna o attraversare l’oceano in barca a vela non mi interessava prima e non mi interessa ora; soprattutto, non ho bisogno di dimostrare niente a nessuno. Ah, e non sono nemmeno gnocca come Wonder Woman.

6. Per il momento non ho intenzione di intraprendere la strada della protesi: è un aggeggio pesante e poco confortevole, in particolare la presa di bacino, una sorta di guscio rigido che dubito di poter tollerare a lungo e per imparare a utilizzarla servirebbe almeno un nuovo ricovero, forse due e tanta fisioterapia; prima di investire tanto tempo, risorse e denaro (pubblici e miei), devo essere ragionevolmente convinta che possa diventare uno strumento quotidiano, altrimenti sarebbe solo uno spreco. 

È stato un anno sicuramente impegnativo, ma non ho il minimo dubbio: ne è valsa la pena: spero di avere l’occasione di dimenticare ancora tanti zampiversari!

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Oltre il ponte

Marmot_66 Il tuo cammino è stato troppo breve e troppo faticoso ma sono onorata di averne condiviso una parte.
Sono sicura che oltre il ponte c’era la Gioiuta ad aspettarti e adesso i vostri cuori sono di nuovo insieme.
Ciao Sara, ci mancherai.

Sara2

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IL TEMPO DELL’ATTESA

E’ quello che dilata i minuti, le ore, dove tutto sembra non muoversi, dove tutto si ferma.

E’ quel tempo che ti sfianca fisicamente e mentamente, dove anche il più roseo ottimismo, comincia a scemare verso un rosa pallido, poi verso il grigio, poi….stop! Finalmente arriva la chiamata dell’infermiere “Signora è in reparto, la vengo a prendere così lo può vedere, si faccia trovare davanti all’entrata del reparto”.

E tu, a quell’infermiere molto giovane, che potrebbe esser tuo figlio, sorridi, lo vorresti abbracciare, stringere in un  vorticoso giro di valzer, ma ti trattieni, non puoi farti conoscere anche qui, devi mantere un certo aplomb, sei sempre la moglie di un paziente ricoverato, un paziente che è appena uscito da una terapia intensiva, perchè ha avuto dei problemi.

E appunto per questi problemi che non ti sono stati risparmiati, che ti sono stati raccontati dal chirurgo che vi ha preso per man questa volta, appunto pr questo tutti quelli che incontri e che ti portano sempre più vicino a LaMiaMetà, sono degli angeli, che vorresti abbracciare, baciare, stringere e vorresti che non vedessero i tuoi occhi lucidi, vorresti che non ti sorridessero così calorosamente per l’ emozione che lasci trapelare.

E durante il tragitto verso la sua stanza, non ti interessa che ti stiano dicendo che lo vedrai pieno di tubi, drenaggi, cateteri, CVC, cannule che entrano nel suo corpo portando antidolorifici, anticoagulanti, sostegno, fisiologica, zuccheri, tutto quello che serve per aiutarlo a riprendersi più in fetta

Non ti interessa, tu, adesso, lo vuoi vedere, vuoi ridargli quel bacio dato in punta di dita stamattina alle 6,30, quando con i suoi occhi zzurri ti ha seguito finchè poteva, mentre lo accompagnavano in sala operatoria.

Buonanotte.

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LA FATICA DI PARLARE

E’ tanta la fatica di parlare.

Per pudore, per non far preoccupare, per non annoiarmi a ripetere le stesse cose, per non riprovare stizza alle solite domande che mi vengono poste dalle stesse persone, alle quali ho già spiegato in tutte le maniere, manca solo che faccia un disegnino, ma a quanto pare è molto difficile capire che i cancri non sono tutti uguali e si dico la parola “raro”, ci sarà un motivo, non ci vuole molto a far scattare nella mente un barlume.

La fatica di parlare al vento, tanto so benissimo che al prossimo incontro saranno le stesse cose che mi diranno, nell’ordine:

– Bisogna essere ottimisti ( davvero?, sai fino ad ora ci siamo tirati smartellate sulle dita)

– Dovete essere fiduciosi nella medicina e nella ricerca (certamente, perchè tu sei un/una di quelli/e che tutti gli anni versa fior di quattrini all’AIRC, tanto per citare un ente di ricerca)

– Vedrete che andrà tutto bene e dopo non ci penserete più (noi finora siamo stati delle oche giulive)

– e l’immunoterapia? e i farmaci biologici? Li avete provati? (Come no, li trovi alla coop, spesso in offerta 3X2, cretina io che non li ho mai acquistati)

– e ma dai, non può essere così brutta come ve l’hanno detta (sei scema e non hai capito cosa hanno detto, la fai più tragica di quello che è, sei ipocondriaca)

– vedrai che dopo troveranno il tipo di chemio adatta da fare (che il tuo dio ti strafulimini, ti ho ripetuto fino allo sfinimento, conoscendoti bene, che non risponde nè a chemio e nè radio):

– ehhh, guarda la cugina del cognato del padrino del mio battesimo aveva uno di quei mali lì (si chiama “cancro”, uno di quei mali lì, per me, può essere anche un’unghia incarnita) ed è lì che si  ripresa benissimo e ha riprso ad andare a lavorare nei campi e a badare ai nipotini).

Debbo continuare?

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Bilanci

Marmot_66 È passato un mese dal mio ritorno a casa, e domani saranno tre mesi dall’intervento, è tempo di fare un primo bilancio.

Innanzitutto sto piuttosto bene, considerata la situazione.
Percepisco ancora l’arto fantasma con molta precisione, ma fa meno male, a volte quasi niente. Ho anche elaborato una teoria neurologica casalinga: credo che al risveglio il cervello faccia l’appello delle varie parti del corpo. Se rispondono correttamente, non succede niente, se invece arrivano segnali non coerenti, il cervello li interpreta come pericolo e li trasforma in allarme, cioè dolore. I segnali che arrivano dal mio moncone sono alterati e strani, probabilmente è per quello che a ogni risveglio si diffonde un’ondata di dolore nella coscia fantasma e considerato che mi sveglio almeno 4/5 volte per notte, non è divertente, ma pazienza, dura solo una decina di secondi per volta.
L’esercito delle formiche ha smobilitato diversi battaglioni, ora sono meno aggressive: arriva ancora qualche morso cattivo, di quelli che mi fanno guaire per il dolore, ma la frequenza è notevolmente diminuita, più o meno un paio ogni ora rispetto ai dieci di un mese fa o ai quaranta di due mesi fa. E senza antidolorifici né antiepilettici.
Tuttavia sono ancora ostaggio di una fastidiosa quantità di farmaci e integratori: alcuni servono per prevenire ulteriori attacchi neurologici o cardiaci e li rivaluteremo dopo le visite di controllo, altri per supplire a carenze che ancora non riesco a compensare con l’alimentazione, pur mangiando ormai di tutto (anche troppo!). Le ultime analisi del sangue erano abbastanza buone, ma l’emoglobina è ancora un po’ bassa, e allora avanti con il ferro due volte al giorno. Invece il potassio era ben più che sufficiente, ho dimezzato la dose e tra una decina di giorni farò un altro controllo per capire se posso andare avanti così o addirittura eliminarlo del tutto.

Ci sono tante, tantissime cose che non posso più fare, alcune molto visibili, come camminare senza ausili, altre meno evidenti ma altrettanto limitanti, come usare un bagno privo di maniglioni o sostegni di altro tipo. Però mi muovo agevolmente con il deambulatore, la carrozzina o le stampelle e riesco a essere abbastanza autonoma nelle attività quotidiane.
Dipendo da altri per molte cose: ho bisogno dell’aiuto di Renato per tante incombenze domestiche, dei miei autisti per gli spostamenti (a proposito: grazie, grazie, grazie e ancora grazie!), dei colleghi per le attività che non è possibile svolgere in telelavoro, ma mi arrangio per quelle indispensabili e posso restare sola in casa anche per tutta la giornata.
Le uscite teatrali sono state l’occasione per saggiare la mia resistenza e scoprire che va meglio del previsto, sono riuscita a stare anche sei ore fuori casa adottando uno stratagemma tanto semplice quanto efficace: ogni venti/trenta minuti mi alzo per un po’ dalla sedia a rotelle per dare sollievo a schiena e glutei. Spero che il cuscino sagomato di cui l’USSL ha appena autorizzato l’acquisto possa aiutarmi ulteriormente a rendere più confortevole la seduta. Intanto posso comunque affrontare un’uscita al ristorante o al cinema.
Reggo bene il lavoro da casa, credo che dal mese prossimo potrei anche andare in ufficio almeno mezza giornata alla settimana, se qualcuno mi viene a prendere e poi mi riporta a casa.

Continuo con profitto le sedute di fisioterapia, sempre tanto faticose ma davvero utili; credo che sarà opportuno prevedere dei richiami periodici, magari un paio di volte all’anno, perché alcuni degli esercizi non si possono riprodurre a casa, altri richiedono assistenza e molti non mi verrebbero mai in mente, senza la fisioterapista a suggerirli. Per esempio, avreste mai pensato che potessi fare questo?
Stamattina ho fatto la TAC e la prossima settimana ho le visite di controllo con oncologa e ortopedici. Non voglio nemmeno prendere in considerazione l’ipotesi che qualcosa non vada, ho davvero bisogno di una tregua, possibilmente molto lunga.

La mia qualità di vita nel complesso è buona e voglio godermela, almeno per un po’. Ho voglia di guardare avanti, di fare progetti con un orizzonte un po’ più lungo di un mese, di prendere due gatti, di pensare a un “dopo”.

Sono soddisfatta dei risultati che ho raggiunto in questi mesi e mi spaventa l’idea di perdere troppo presto quello che sono riuscita a costruire con tanta fatica e tanto dolore.
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La gabbia

Magone, muso lungo, fatica a parlare, fatica a pensare. Due settimane passate così, in quasi totale apatia. Per cercare di reagire, un paio di pomeriggi fa mi sono costretta a mettermi alla macchina da cucire: ci sono i lavoretti di Natale a cui pensare. La macchina da cucire, col suo “ton-ton-ton” ritmico e l’attenzione che richiede nell’essere adoperata, è sempre stata tra i miei anestetici più potenti (assieme al ron-ron dei miei gatti, alla musica barocca, al coro, a Orgoglio e Pregiudizio in tv e al tavolino da make-up).

 

E invece niente. Due ore lì a fissarla, a fissare l’ago fermo illuminato dalla lampadina sovrastante. Lo sguardo che passa inerte dall’ago al piccolo ferro da stiro posato sul bancone della cucina, immediatamente alla mia destra. Un quarto d’ora netto di lavoro-lavoro in due ore, spezzettato in più frammenti di uno, massimo due minuti l’uno. Nella testa, il vuoto. L’unico pensiero che riuscivo a formulare: “se inizio a cucire devo fare un gaso (leggi: cucitura diritta nel mio dialetto) e devo alzarmi per aprire gli orli dei lembi cuciti e appiattirli col ferro da stiro, un gaso e una stiratura, un gaso e una stiratura, un gaso… Ad ogni passaggio alzarmi, girarmi e fare un passo, ad ogni alzata dalla sedia dolore ai femori, fitte, e di nuovo dolore e fitte nel risedermi. Una, dieci, venti volte. No, non… no”.
Pomeriggi così. Giornate tese, con l’attacco d’ansia sempre lì lì per partire. Tre attacchi di cervicali in cinque giorni, qualcosa vorranno dire. Senza capire il perchè. Senza trovare il nodo da sciogliere nei meandri della mia testa, nella mia gola. Lo stomaco chiuso. Zero voglia di uscire. Zero voglia di intrattenere una qualsivoglia conversazione con chiunque. Nemmeno con mio marito. Messaggi whatsapp ricevuti e bellamente ignorati. Richieste di aiuto e di sfogo sul mio gruppo bellamente ignorate anch’esse, tranne quelle di determinate persone che usano quel garbo che non mi fa mai sentire “ad uso discarica”.
L’apatia.
Poi l’incontro con la psicologa. Giri e giri di parole su discorsi che non c’entravano apparentemente nulla con il mio problema di ansia: il Power, il Power e la scuola, il Power e le nostre litigate quotidiane tra mamma e adole-coso. Non volevo parlare di me. Non ho voglia di parlare di me con nessuno. Cosa c’è da dire? Le cure vanno avanti, i capelli li ho, devo spiegare un’ansia che io stessa fatico a decifrare e sperare anche di essere capita? No, quella fatica non la voglio fare.

Però arriva quella parola buttata lì, come per caso, che fa esplodere tutto. Una esplosione violenta, breve ma intensa, che fa cadere il muro, che fa capire tutto. Una esplosione di rabbia pazzesca. Una rabbia che non sapevo di avere.

La parola “GABBIA”.
Quella gabbia in cui mi sento incastrata, come era incastrata nel muro la mia Maya stanotte nel sogno. Ho sognato Maya incastrata nel muro, un sogno orribile. E io piangevo e urlavo perchè non riuscivo a liberarla da lì, chiamavo aiuto e non arrivava nessuno, dovevo scavare nel muro con le mie mani nude, e non ci riuscivo, e lei miagolava, chiamava aiuto. Mi spellavo le dita, mi staccavo le unghie, ma non serviva a niente.
Maya, la mia gatta tigratona, quella che si crede (secondo me) un cane,  perchè mi sta sempre appiccicata ovunque io mi muova, e piange se la chiudo fuori dal bagno quando devo… beh, quando sono in bagno. Maya, la mia ombra.

Maya non a caso era nel sogno. Maya ero io.

Paradossale come una sola parola, se quella giusta, quando riesce ad uscire faccia rimettere in moto una macchina da cucire e la faccia lavorare ininterrottamente per due ore.
Non solo. La fa smontare, ripulire fin dentro i più piccoli ingranaggi raggiungibili da pennelli pennellini e pinzette, rimontare, passare con panno in microfibra imbevuto di candeggina e sgrassatore su ogni parte esterna lavabile e sul coperchio. Lavoro che non facevo da boh, due o tre anni di sicuro, e comunque mai con questa cura certosina. E l’ha anche fatta decorare con quello che mi ha suggerito lo sghiribizzo del momento: tessuto doppiato con nastro biadesivo e qualche cuore di legno.

E rimetta in moto una lingua incollata al palato dopo due settimane.

Ps.: ho rifatto il prelievo di controllo ieri. Sono ancora neutropenica, neutrofili in discesa, dai 2700 di due settimane fa agli attuali 2300. Non così bassi da dover interrompere la terapia o fare i fattori di crescita, ma sufficientemente bassi per mantenere le precauzioni igieniche atte ad evitare malattie stagionali o infezioni di qualsiasi genere. Gli eventuali antibiotici che dovessero rendersi necessari, con la terapia che sto facendo, cozzano.

 

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