Un istintivo moto di rabbia. Un’offesa ai malati, ai medici, ai ricercatori. Una stilettata a tutte le persone, come me, che si sforzano di continuare a vivere con la speranza di non essere già condannate. Un male incurabile, così è stato definito ieri mattina sul sito di Repubblica e nei titoli dei tg della sera il cancro per cui è morta Oriana Fallaci. Ho fatto la prova con Google: scrivendo Oriana Fallaci male incurabile escono una sfilza di siti, più o meno giornalistici.
Eppure gli stessi giornali e telegiornali quasi ogni giorno pubblicano notizie incoraggianti sulle nuove scoperte in campo oncologico che si trasformano in cure, in vite salvate. Allora perché continuare ad usare questo linguaggio?
Poi stamattina ho letto un bell’articolo di Gad Lerner (proprio su Repubblica) e ho scoperto che la Fallaci aveva smesso di curarsi, di frequentare oncologi, di farsi gli esami. Dopo il seno è stata colpita ai polmoni, ma continuava a fumare moltissimo. Allora, mi sono detta, è ancora più assurdo considerare vittima di un male incurabile chi ha deciso di rifiutare i controlli, le terapie e la cura di sé.
Scrive Lerner: “Che il cancro non sia una malattia contagiosa e che dal cancro si possa guarire sono infatti certezze mediche sempre meno consolatorie, rese scricchiolanti nell’esperienza di ciascuno di noi dall’ecatombe silenziosa degli amici e dei congiunti. La rimozione e la scaramanzia ingigantiscono il tabù, circondano quasi sempre di silenzio il nostro incontro con una malattia che più di ogni altra viviamo come destino di solitudine. Il non detto acuisce i nostri interrogativi…” E il mal detto, aggiungerei io, scava il solco tra chi la malattia la vive o l’ha vissuta dentro le sue cellule e chi no, produce tabù, paure, silenzi pesantissimi.
Nell’articolo Lerner paragona lo “stile” della Fallaci a quello, opposto, di Tiziano Terzani. Lei che definisce il cancro l’Alieno, un nemico annidato dal suo corpo, lui che lo considera parte di sé, occasione di ricerca terapeutica e spirituale.
Sono due approcci estremi, io credo di trovarmi nel mezzo (con uno sbilanciamento ideale a favore di Terzani): come la Fallaci, ho definito il mio approccio al cancro, che chiamo mostro, una battaglia, ma come Terzani ho cercato di parlarne e d’instaurare un rapporto amorevole con il mio corpo, di renderlo più forte di ciò che lo ha invaso. La Fallaci invece, scrive ancora Lerner, considerava la guerra contro il cancro “una guerra contro il suo corpo in disfacimento dal quale occorre a suo dire estraniarsi cercando l’unico rifugio possibile nella trincea della mente.”
Ora, mentre sto scrivendo, mi sono letta quest’intervista della Fallaci, proprio sulla malattia: e scopro che anche lei odiava che si dicesse male incurabile: “così ci togliete ogni speranza. Non è vero che è una malattia inguaribile. Le si può sopravvivere.”
E’ una triste ironia che l’annuncio della sua morte sia stato dato usando proprio quell’espressione odiosa che fa precipitare indietro nel tempo, quando di certe malattie atterriva anche il nome, come se solo pronunciandolo il brutto male potesse dispiegare i suoi micidiali effetti.
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