Sono qui, a pensare ancora a quello che mi è successo venerdì. Ho sempre bisogno di un certo tempo di elaborazione. E’ domenica sera, il weekend andato, io persa dentro un pensiero tortuoso, tendente al nero.
Negli squarci del mio stato depressivo attuale mi vengono in mente sempre gli occhi scuri della mia dottoressa, il suo sguardo attento, preoccupato.
E’ la seconda volta, in un mese, che incrocio quello sguardo. E lei è così gentile. Avrà circa la mia età. Chi glielo fa fare di passare tutti i giorni al centro oncologico, mentre fuori magari c’è il sole? Potrebbe fare mille lavori diversi. Potrebbe vendere fiori, tagliare i capelli, scrivere libri. Ma no, ha deciso di stare lì. Non so se le piace davvero questa frontiera e fino a che livello di consapevolezza si sia spinta, prima di decidere che questa sarebbe stata la sua vita. Non so praticamente nulla di lei. Ci sarà sempre qualche paziente che le dirà di essersi sentito solo un numero, sempre qualcuno pronto a sostenere che si può fare di più, e meglio. Deve essere dura, dopo anni di studio, turni massacranti, giornate pesanti sulle spalle. Alla sera sarà certamente molto stanca, ne avrà le scatole piene e forse faticherà anche a staccare.
Ma è così, nessuno di noi vuole essere un numero. Per questo cerchiamo gli sguardi dei nostri dottori, e se per caso ne incrociamo uno buono ci attacchiamo subito, come cozze ad uno scoglio. Cerchiamo complicità, odiamo il distacco, la freddezza, vogliamo la classica pacca sulla spalla.
La signora Franca di Zocca sinteticamente sostiene che un certo dottore è “una carezza”, per dire quanto la fa stare bene sentirlo così partecipe. Io sostengo che la mia dottoressa ha occhi veri, un po’ stanchi, che non sanno mentire. Per questo me li appoggio sulle spalle come un cappotto, e ho meno freddo, in quella sala d’attesa dove si sta come, d’autunno, sugli alberi, le foglie.
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