Un mese fa ho scritto un breve racconto per la rivista online Sacripante! dove raccontavo in terza persona la mia ultima seduta di chemio. Il titolo, Domani nella battaglia pensa a me, è quello dello splendido romanzo di Javier Marìas che un giorno mi aveva consigliato il dottor Zeta, il mio oncologo. Adesso quel titolo, che non avevo scelto io, lo sento ancora più appropriato, tristemente profetico. Non volevo più raccontare quelle vicende del mio recente passato, invece qualcosa mi ha spinta a farlo ancora. Qualche giorno dopo è morta una mia collega, per un cancro al seno che velocemente aveva attaccato anche il fegato: un altro presagio funesto.
In questi ultimi sei anni ho fatto dodici ecografie epatiche, perché il fegato è uno degli organi da monitorare nel follow up, il controllo periodico per accertare che il nemico non abbia deciso di riaprire le ostilità, e una cellula bastarda non sia sopravvissuta ai bombardamenti di chemio colonizzando un altro territorio. Tutte con lo stesso radiologo, una specie di parente, che adesso conosce le mie viscere come le sue tasche. Nel bene e nel male. Mi ha fatto ascoltare il battito del cuore di mia figlia, e mostrato il suo nasino all’insù quando era un feto di pochi centimetri. Ha prodotto la prima immagine del mostriciattolo che si era manifestato come un piccolo bozzetto sul seno destro. E quelle dodici ecografie sempre identiche, tre o quattro righe rassicuranti che diventavano un segno meno, negativo (che nel linguaggio medico significa positivo, tutto bene), nella cartella clinica aggiornata dal dottor Zeta durante le visite semestrali di controllo.
L’altro giorno era la tredicesima, e dopo una mammografia perfetta e una sfilza di esami del sangue con un piccolo allarme nei markers tumorali, apparentemente rientrato, ho scoperto la pancia rilassata, subito cosparsa da una sostanza fredda e lattiginosa. Mi aspettavo i pochi minuti di passaggio della sonda, mentre lui per tre o quattro volte mi diceva “Trattieni il respiro… Respira normalmente” e la tensione si scioglieva con la solita frase rassicurante: “Tutto a posto, stai tranquilla.” E invece il silenzio non veniva rotto, se non dai continui “Trattieni il respiro… Ancora… Quando non ce la fai più respira normale… Ancora… Trattieni”, gli occhi suoi fissi sul monitor, la mano che muoveva la sonda premendola sotto, un po’ più su, un po’ più giù, a destra, a sinistra. Un lieve, quasi impercettibile, digrignare della mascella.
Il silenzio allora l’ho rotto io.
“Che c’è? Mi devo preoccupare?”
“Non ti devi preoccupare, Giorgia, ma c’è qualcosa che prima non c’era.”
Che significa sì, ti devi preoccupare, sei obbligata a preoccuparti. E lanci la prima maledizione, mentre il cuore comincia a battere a mille e una morsa te lo stritola. “Devi fare altri esami, una tac, e probabilmente altri cicli di chemio.” In quale altro modo si può reagire a questa doccia ghiacciata se non gridare tra le lacrime che non è giusto non è giusto non è giusto? Come potevo non ripensare alla collega morta appena un mese fa? Non urlarlo terrorizzata?
“Ma no”, ha provato a tranquillizzarmi lui, riuscendoci in parte, “ogni storia è diversa! Tu lo sai, lo sai perché ti devi fare questi controlli frequentemente, ogni sei mesi, ogni anno? Lo sai?”
“Lo so…” Ho mormorato.
“Lo sai che servono per poter intervenire subito, tempestivamente, se qualcosa, sciaguratamente, ritorna. E lo sapevi che poteva tornare, no? Altrimenti non te li farebbero fare questi controlli. Tu mi porti il caso della tua collega, ma io te ne posso portare decine e decine di esempi felici, di gente che dopo tanti anni sta bene.”
Ma il fegato, cazzo, è tutta un’altra storia. Presentatemeli gli esempi felici, che ne ho un bisogno fottuto. Sei anni fa sembravo una scema per quanto l’avevo presa bene. Grazie all’esempio di mia madre che dopo dieci anni sembrava definitivamente guarita, il cancro al seno avevo imparato a considerarlo un’erbaccia facilmente estirpabile. Ero arrabbiata, sì, un po’ spaventata per le cure, dispiaciuta per non aver più due belle tette, ma una e tre quarti, addolorata per non poter fare un altro figlio, ma questo terrore che sto provando adesso non sapevo cosa fosse. Lula aveva solo due anni, e non era necessario spiegarle nulla, bastava vivere normalmente ogni cosa, senza nascondersi. Ora ne ha otto, e le andrà spiegato tutto, per non spaventarla, o rattristarla. Ora c’è un macigno di angoscia che sei anni fa non c’era. Ora devo dar fondo a tutte le mie energie per affrontare questa nuova lotta perché so, come mi ha ricordato ieri la mia vicina medico, che il 50% del risultato lo dà il carattere, la capacità di reagire, l’anima. Il mio karma.
Poco fa ho fatto la tac, le dosi massicce di ignazia (rimedio omeopatico per l’ansia) sembrano funzionare, ero tranquilla, ormai il colpo l’avevo incassato, ed ero pronta a tutto. L’ecografia è confermata, con un piccolo miglioramento. Il mostriciattolo è uno, una metastasi piccola. Una sola. E’ una splendida giornata, Sten mi ha accompagnata con la moto, e adesso ce ne andremo a mangiare sulla riva del Tevere, nel ristorantino di un centro sportivo accanto alla ciclabile.
Ho telefonato al dottor Zeta, perché l’appuntamento di ieri era saltato. Doveva essere una passeggiata, il mio controllo, e lui doveva assistere la mamma in fin di vita. Era sotto a un treno. “Non pensavo di stare così male. Tu mi capisci, mi ricordo quando dopo di te ho curato tua madre, come ti preoccupavi.” “Già. La mamma è la mamma.” Ho detto io. Non sapevo come affrontare la cosa. “Mi dispiace disturbarti in questo momento. Però, mi hanno trovato una metastasi al fegato.”
“Cosa? A chi?”. “A me. A me.” Un attimo di silenzio. “Non mi disturbi. Mi addolori.” Altro attimo di silenzio. “Però adesso dobbiamo essere operativi. Ci vediamo sabato, mi porti tutto. Anna, scrivi, sabato a mezzogiorno” e ha detto il mio nome. Ho sentito la voce dell’infermiera “è la signora a cui ho telefonato ieri per disdire l’appuntamento?”. “Sì” ha detto lui. “La mia piccola paziente.”
Conoscendolo, in questi giorni studierà la strategia migliore, e sabato ci prepareremo alla prima battaglia di questa nuova guerra.
Domani, nella battaglia, pensate a me.
Il post originale qui
Buonasera Giorgia, a mia sorella Sandra (48anni) dopo una mastectomia sx per carcinoma duttale infiltrante e cure con anastrazolo, a distanza di 4 anni è comparsa una metastasi ossea al bacino di 6 cm. Ha già iniziato il denosumab(XGEVA) e il calcio + vitamina D. Ora deve iniziare terapia ormonale oppure chemio (ancora non è stato deciso). E’ in cura all’IFo ma l’atteggiamento dei dottori è che sia spacciata. Se dal tumore primitivo vi sono tante persone che sono riuscite a guarire, non esiste nessuno al mondo che sia guarito dalle metastasi. La cosa terribile è che pure avendo solo una metastasi ossea, seppure di 6 cm, anche sul tempo non danno molte speranze. Fanno capire che in una donna giovane, una metastasi del genere significa che il tumore è attivo e molto forte. Sono disperato. Leggo tante cose, tante speranze, ma l’IFo sembra una macelleria. Quando vai con il tumore primitivo si attivano tutti, ma quando ti viene la metastasi, sembrano i primi i dottori a non crederci. Sei a tutti gli effetti un malato terminale e le cure per ridurre o persino guarire una metastasi le chiamano “palliative”, in quanto non porteranno comunque a guarigione. E’ terribile.
Angelo, ti avrei già scritto privatamente. Questo post l’ho scritto 11 anni fa… Oggi sto bene, sono stata curata (l’intervento chirurgico proprio all’IFO, ma il mio oncologo era al San Giacomo, oggi al Nuovo Regina Margherita), nessuno mi ha trattato da terminale. Non so chi ti abbia detto che nessuno al mondo è mai guarito da metastasi. Siamo ancora una piccola percentuale, ma sicuramente in crescita. Ogni storia è diversa, ma spero che anche tua sorella possa sfidare la cattiva prognosi, e vincerla.