Come quando fuori piove

Finalmente è spuntato il sole. A me, onestamente, il brutto tempo di questi giorni ha fatto un po’ comodo, mi vergogno quasi a dirlo. Non mi ha messo neanche tristezza, visto che ero comunque obbligata a starmene buona buona sul divano. E poi tutta questa pioggia ha fatto riemergere molti dei miei ricordi, ma in una maniera dolce, che sono finalmente stata in grado di metabolizzare.
Anche l’anno scorso, di questi tempi, pioveva sempre. Lo ricordo molto bene, perché avevo appena cominciato a girare per l’ospedale, e mi inzuppavo regolarmente. Ricordo come adesso il primo giorno in cui entrai al Centro Oncologico Modenese. Diluviava. Ero con il mio papà è l’amico M. Nella sala d’aspetto feci un incontro che non dimenticherò mai, il mio ex-collega di trentanove anni. Si stupì di vedermi lì, si commosse, parlammo molto, ci salutammo con la promessa di rivederci presto. Lui non è riuscito a mantenerla, quella promessa, e per me è una ferita ancora aperta.

Ma torniamo al primo incontro con il Grande Oncologo, il capo di tutti i bravi dottori che mi hanno seguito fin qui. Avevo i vestiti inzuppati, e nonostante la tensione non riuscivo a smettere di pensare che puzzavo come un cane bagnato. Lui mi guardò a lungo, ma non sfacciatamente, come se volesse inquadrarmi senza mettermi a disagio. Fino a quel momento di me conosceva solo il nome e il referto. Poi ruppe il silenzio, chiedendomi: “Di cosa vuoi che parliamo?”. Mi mise la battuta su un piatto d’argento, e per la mia mente fu liberatorio, come uno di quegli scrosci che battevano contro i vetri. Gli risposi: “Ha visto che tempo?”, lui mi fece un sorriso, poi mi chiese: “Come vogliamo affrontare questa situazione?”. E io gli dissi una frase da film, senza sapere da dove mi fosse uscita, perché vi assicuro che avevo passato i giorni precedenti in una valle di lacrime. Gli dissi: “Voglio vedere crescere le mie bambine. Mi dica come fare e lo farò. Poi mi voglio dimenticare tutto e andare avanti”. Beh, a distanza di un anno posso dire che era soprattutto una frase ad effetto, di quelle fatte apposta per caricarsi, e le cose sono “andate avanti” un po’ diversamente, con tanti alti e bassi, e molta meno sicurezza. Però tra noi allora funzionò. Mi illustrò alcune prospettive, poi aspettammo il chirurgo. Quando ci raggiunse, mi visitarono insieme, e lì arrivò un’altra brutta notizia: nel mio caso la chirurgia conservativa non era consigliabile, ma mi diedero comunque un po’ di tempo per pensarci. Tornai a casa, sempre inzuppata dalla testa ai piedi, e alla sera feci il mio ingresso nella comunità virtuale dei forum di senologia. Volevo il parere di chi c’era già passata. Nella mia confusione cercavo persone giovani, soprattutto. Ottenni qualche risposta, poi finalmente riuscii a scrivere la verità, e cioè che in fondo non me ne importava così tanto, perché avevo tanta paura di non farcela. E lì, da quello che successe dopo, capii che cosa vuole dire la fratellanza, il sostegno, il conforto delle donne operate al seno. Io non ero forte, non ero coraggiosa, non ero ottimista, non sapevo ancora nulla dell’iter, delle terapie e dei controlli, ma riuscivo a sentire il calore di quelle parole, e capivo che potevo partire da lì. Il cancro mi stava portando via il seno, ma perdere la gioia di vivere sarebbe stata una tragedia più grande.
Ora non è che sia diventata molto più brava, ma me la cavo, e mi basta.
Se arriva il temporale, mi riparo da qualche parte, e aspetto che passi. E quando c’è il sole esco fuori e sorrido, oggi, come un anno fa.

Qui il post originale.

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