Ieri ho sentito al telegiornale questo termine che non conoscevo: psicotraumatologia oncologica. Ho seguito attentamente la spiegazione, in relazione ad un convegno sull’argomento che si è tenuto all’Istituto Regina Elena di Roma.
In particolare veniva messo in luce il fatto che le persone che hanno ricevuto una diagnosi di cancro, anche dopo aver superato i fatidici 5 anni ed essere stati dichiarati guariti, non riescono a sentirsi tali, non riescono a pensare ad un futuro concreto.
Questa paura è sostanzialmente legata al trauma di aver scoperto di avere quella malattia che ancora in molti chiamano un brutto male. Una diagnosi del genere infatti in primo luogo fa pensare alla morte, ad una grave incertezza del futuro.
Si sa insomma che, comunque andrà, la vita non sarà mai più quella di prima. E già solo pensare ad un futuro anche a breve termine nella vita diventa difficile. (Per fortuna poi molte volte le cose vanno meglio di quanto si possa sperare).
Sentirsi dire di avere il cancro equivale a dire addio alla propria esistenza come la si è vissuta tutti i giorni fino a quel momento e anche, forse, dire addio a tanti dei propri sogni. E’ una sorta di lama che taglia in due la linea immaginaria della propria esistenza.
Ne deriva quindi (ma è logico, non c’è bisogno di dirlo) che quando si riceve questa diagnosi, si subisce un grosso trauma.
Il convegno (aperto solo agli addetti ai lavori) mirava a mettere in luce l’esigenza di accompagnare la persona malata di cancro e poi guarita con un sostegno psicologico idoneo a farla riappropriare di una maggiore serenità nella propria vita. Uno sostegno concreto per cercare di far superare il trauma iniziale a chi ha ormai la malattia alle spalle.
La trovo un’iniziativa molto bella.
Un po’ come la clinica nata al’interno dell’Istituto Tumori di Aviano, dedicata a chi ha già superato i cinque anni libero da malattia:
http://www.aimac.it/__kquUmA==_8_nea.html
Insomma, ci si può anche sentire guariti dal cancro quando gli anni cominciano a passare, ma le ferite interiori restano…
Il post originale qui
La vita non ritornerà mai quella di prima, mi fa piacere che inizi a diffondersi il concetto per cui la soglia dei 5 anni è puramente convenzionale. Grazie per questo post, chissà magari quando finirò i miei 5 anni (ne mancano ancora 3) ne apriranno uno anche a Roma!
Buona giornata,
Evviola
Cara evviola, speriamo che nel frattempo questa branca della psiconcologia si diffonda. Secondo me diventerà un valido aiuto.
Intanto permettimi di farti un grande in bocca al lupo per i 3 anni che ti mancano ai 5, e ovviamente per tanti tanti ancora dopo i fatidici 5.
Magari da passare qui in compagnia, che quando si sta insieme il tempo passa prima… 😉
E’ molto interessante questo post e l’argomento che tratta mi piacerebbe poterlo approfondire, nonostante sia aiutata da uno psichiatra e nonostante la razionalità di certi ragionamenti credo di non essere riuscita a superare il trauma di essermi ammalata di cancro.Riuscire a percepire la vita senza una scadenza è veramente difficile. Non dico neppure che spero di riuscirci seppure spesso in questo impervio cammino una dolce fatalismo mi aiuta a vivere meglio. mah!
Cara C., il punto cruciale è proprio quello che dici tu: riuscire a percepire la vita senza una data di scadenza.
Sai, spero tanto di riuscirci anche io, ma per ora non sono riuscita a cambiare la mia ottica di precarietà nonostante il mio ottimismo, e i sei anni passati.
Credo davvero che lavorare su questa idea fissa richieda un impegno notevole, e forse appunto l’aiuto di persone adeguatamente formate su questo aspetto della “post-malattia”, diciamo così.
Comunque, un grande in bocca al lupo!
Ciao Camden,
ho letto molto di quello che hai scritto e, dopo 1 anno e 7 mesi dalla diagnosi si tumore al seno, con tutte le disavventure legatre a chemio, intervento demolitivo, radio e…tutto il resto… mi riconosco in quasi tutto. Quasi!
Quello che non capisco e’ come una persona che ha (avuto) un cancro possa scrivere quello che scrivi sull’atteggiamento degli altri.
“Già, perché nessuno ti insegna cosa fare …scatena il dubbio se continuare a frequentare e/o sentire la suddetta persona, oppure lasciarla stare in un silenzio – distacco, che magari è solo rispetto …” Scherziamo? Moltissimi ti lasciano e non e’ per rispetto. E’ pura vigliaccheria. Paura ed egoismo. Perche’ la vita continua e non si vogliono affliggere.
“Ovviamente nessuno ha un manuale di comportamenti valido per tutti…”…beh…non esiste un manuale…basta usare il cuore e il cervello!
“Secondo il mio punto di vista, che però è strettamente personale e non valido in assoluto, una persona malata di cancro non dovrebbe essere circondata da: pietismo, atteggiamenti del tipo “che povero sfigato”, oppure falsa commiserazione, o sollecitudine estrema di quel tipo che si riconosce a distanza di un km che è solo un atteggiamento di facciata.” Certo, vero.
Ed ecco una cosa ASSURDA…che leggo nel tuo testo: “Per come la penso io, un malato di cancro ha bisogno di essere trattato il più possibile come una persona normale … fa bene mostrare disponibilità ad aiutare lui e/o la famiglia in quelle incombenze che da solo non può più fare, circondarlo il più possibile da affetto, ma anche coinvolgerlo in discorsi più leggeri che non vertano solo sulla malattia, e non andare a trovarlo con l’atteggiamento da “funeral party”…”.
Prima di tutto…che significa “come una persona normale”? NON LO E”, forse?
“Mostrare disponibilita’…incombenze che da solo non puo’ piu’….”: ma CHE dici???? generalizzi a discapito di tutti noi che siamo in questo guaio, alimentando l’idea del povero derelitto sfigato.
“Coinvolgerlo in discorsi leggeri…”…cioe’?
“Ovviamente queste sono le mie idee in proposito. Ricordo………………. qualche risata. Dopotutto, anche quando si ha il cancro si può riuscire a ridere, ogni tanto…”.
Dio nuovo: CHE dici?
prima di tutto, anche sotto chemio, i piu’ vanno avanti..magari non lavorano come prima, ma mandano avanti la famiglia, la casa, i figli, io ho fatto tutto….sempre. E non ricordo di aver avuto bisogno che qualcuno per pieta’ mi sbrigasse le incombenze.
Davvero, mi sconcerta leggere che queste tue parole le hai scritte dopo l’esperienza vissuta. Sono parole che denotano il fatto che hai una netta suddivisione in testa tra malati di cancro e persone normali.
Ricorda sempre che tutti possono avere un cancro, in qualsiasi giorno della loro vita…oppure Alzheimer, diabete, SLA, ictus….allora, quali sono i normali? chi resta sano? e CHI resta sano, su questa terra….non saprei…non conosco alcuna persona che non abbia niente….vogliamo vivere in club esclusivi….scrivendoci le regole di comportamento. Basta il cuore, basta un po’ di realismo…e modestia. Domani…il piu’sano degli uomini potrebbe cadere da un’impalcatura…o schiantarsi contro un guard-rail…domani….SIAMO TUTTI SOTTO IL CIELO!
Ciao P,
sono rimasta colpita da questa tua attenta analisi di ciò che ho scritto nell’altro post…
Allora ti rispondo punto per punto:
1) Quando la gente si allontana. Oltre agli egoisti, quelli che hanno paura che il cancro possa essere contagioso, ecc, ci sono anche persone che si allontanano per una sorta di pudore, perché non sanno come comportarsi, non sanno come interagire in quel frangente e magari hanno perfino paura di disturbare. E’ a loro che pensavo mentre scrivevo quelle parole. E ho attinto ai discorsi che ho sentito in giro diverse volte, per scrivere quella riflessione.
2) Anche per me il malato di cancro è una persona normale, ma è la società che non sempre lo pensa, anzi. Basta vedere le problematiche del reinserimento sul lavoro, e il rifiuto di alcune aziende a offrire un posto di lavoro a chi ha il cancro.
E poi ci sono mille altri momenti in cui un malato di cancro è discriminato: i mutui, le assicurazioni e quant’altro.
3) Come dici tu, ho scritto queste parole dopo l’esperienza vissuta. E siccome il discorso era generale io sono partita dal punto di vista di quello che ho vissuto io, perché è quello che conosco meglio di tutto il resto.
E ti assicuro che ci sono tumori fortemente invalidanti. Uno può avere tutta la forza di volontà che vuole, ma davanti a certi problemi non è sempre possibile andare avanti da soli. Come dovevo fare io, con l’addome appena ricucito, dopo un mese di ospedale, con l’apparato digerente ricostruito in 8 ore di intervento, i dolori e la fascia elastica a tornare a casa e fare tutto da sola? Potevo andare a fare la spesa, a comprare le medicine, a girare per gli uffici per la domanda d’invalidità? Potevo mettermi a rifare i letti, a lavare i pavimenti con il vomito in gola?
Alcuni tumori sono più invalidanti, ed è a chi ha più problemi che mi riferivo quando parlavo del bisogno di essere aiutati. O mi dovevo mettere a elencare i casi uno per uno?
Se tu sei forte e hai saputo fare tutto da sola, brava, tanto di cappello.
4) So benissimo che tutti abbiamo il nostro destino e io pensavo sempre quando facevo i km per andare a fare la chemio, che se un’auto ci fosse venuta addosso tutto quell’affannarsi non avrebbe avuto senso. So benissimo che tutti si possono ammalare di cancro o di altro, ma prova a dirlo a certe persone che si comportano come se non fossero nemmeno sfiorate da questi pensieri.
Io ho espresso quello che pensavo, se poi la cosa ti offeso mi spiace, ma in 7 anni di vita con e dopo il cancro mi sono resa conto che ci sono tante persone che tracciano la linea di divisione tra i sani e i malati. E so bene che non dovrebbe essere così.
Se posso dire la mia… Io ho avuto la diagnosi di tumore al seno un anno e quattro mesi fa, e anch’io ho vissuto tutto l’iter di chemio, intervento, radio, immunoterapia ed ora terapia ormonale e controlli continui, praticamente ogni settimana sono in ospedale per qualcosa. E lo scorso anno avevo 37 anni e un bambino di 6. A settembre si è ammalata mia madre, stesso tumore, stesso trattamento, con la differenza che lei non ha un marito e non guida l’auto, al paese dove vivo non ci sono mezzi pubblici, quindi ho fatto e faccio viaggi doppi: per me e per lei. E ho ansia doppia, per me e per lei. Mio figlio, che tutti dicono che sono fortunata ad avere un bambino durante la malattia perchè mi tiene viva, ha talmente risentito di tutta questa storia che lo sto portando dalla psicoterapeuta infantile, da tanti problemi che ha soprattutto a scuola. E’ normale per un bambino di sei anni avere la mamma che lo porta a scuola con la mascherina, sta a letto per giorni, non ha i capelli in testa e ogni due per tre deve affidarlo ad altri perchè se ne va in ospedale, e non può abbracciarla con foga perchè ha il port e deve stare attento a come la tocca?
P., sono contenta di leggere che ci sono persone come te che riescono a considerare una vita come questa come “normale”, per me ti assicuro che non lo è. Per me è già stato uno sforzo immane tenermi sorridente e vitale mentre ero sotto chemio, vomitando, senza forze, senza capelli, gonfia come un pallone, insomma sai di cosa parlo. Ho dovuto sforzarmi per mio figlio, raramente ho dovuto ricorrere ad aiuti esterni per fare le semplici cose quotidiane ma non perchè mi fosse facile, bensi per cercare di dare a mio figlio una vita il più tranquilla possibile nonostante tutto.
Si, è vero, tutti hanno i loro problemi, tutti cerchiamo una soluzione che meglio si adatti alle nostre esigenze, ed è vero, anche sotto chemio si può riuscire a ridere, ma ammetterai che non è facile. Chiedi ad Anna Lisa quanto per lei sia normale la vita che fa, a trentadue anni, quando normalmente una persona di quell’età vive, lavora, ama, costruisce una famiglia. Chiedilo alle tante ragazze giovani, con meno di trent’anni, a cui la menopausa indotta preclude la possibilità di diventare madri temporaneamente, o addirittura definitivamente quando si tratta di tumori all’utero o alle ovaie. Siamo realiste, non si tratta di fare dei club esclusivi, ma di distinguere un tumore da un raffreddore per cercare una vita il più possibile attinente ai nostri desideri. Non si tratta di cercare pietismo, ma di accettare il fatto che degli altri si ha bisogno, perchè più in là potrebbe esserci una persona cara al nostro posto, e tutto vorremmo fuorchè vederla arrovellarsi per far da sola quando sappiamo il sacrificio che ci vuole.
Premetto che in questi quattro anni che mi separano dalla diagnosi di tumore al seno ho visto le persone reagire in cento modi diversi di fronte alla malattia, ed ho capito che non è possibile pensare strategie ed atteggiamenti validi per tutti. In ogni caso, per me la normalità è stata una conquista quotidiana: ho fatto quasi tutto quello che potevo, ma alcune cose mi sono stata proibite dai medici ed altre non le ho più fatte perché non ne avevo la forza o semplicemente la voglia. Per esempio, ho sempre lavorato volentieri durante le terapie, ma dopo gli interventi non potevo guidare per tutto il tragitto casa-lavoro, quindi mi passavano a prendere i miei colleghi. Per quel che mi riguarda è stato importante (e non banale) imparare a chiedere aiuto, perché chi mi stava accanto a volte non sapeva materialmente cosa fare per darmi una mano senza farmi sentire appunto “non normale”. Un’altra cosa: io sono stata sana, e poi malata, e ora di nuovo sana. Da sana ho fatto tanti errori con le persone malate, forse con un briciolo di superficialità, ma tutti in buona fede. Da malata ho capito i miei errori – e quando ne ho avuto la possibilità ho chiesto scusa -, poi ho visto altre persone applicare a me gli stessi sbagli. Ora, da guarita, sono sicura di commettere ancora tanti errori con chi sta affrontando la malattia, anche se sono certamente più sensibile di prima. Trovo quindi molto bello ed utile che se ne parli sempre, anche con opinioni diverse, perché è l’unico modo per non alzare muri che non hanno senso di esistere.