Nero pece

spilloQuando faccio chemioterapia mi succede una cosa strana: nei primi due giorni le vene mi si gonfiano, pulsano e diventano scure. La prima volta che me ne sono accorta mi sembrava di essere dentro ad uno di quei film dell’orrore in cui il male è rappresentato come una sostanza nera che scorre nel corpo dell’indemoniato. In seguito ho capito che era un effetto collaterale non così evidente e che solo io facevo caso a questa cosa. Con il passare dei mesi, però, ho iniziato a notare che tutte le “pieghe” del mio corpo si stavano scurendo. In particolare le ascelle mi si sono totalmente annerite. Ho la pelle “cotta” dalla cura. È abbastanza imbarazzante mettere le magliette e vedere l’alone nero che sbuca dalla manica corta. Di certo non è l’effetto collaterale peggiore, né niente di grave, ma dà l’idea di sporco e non è proprio il massimo. Per fortuna, con il maltempo di questi giorni, le maniche corte sono andate in letargo e adesso questo inconveniente non è più così sotto gli occhi di tutti. La mia dottoressa mi ha detto che dopo la fine della cura in poco tempo sparirà, per fortuna.
Aspetto. Non solo che le ascelle si schiariscano.
Aspetto la fine.
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Bentornato buonumore!!!

spilloStamattina ho fatto il penultimo esame del sangue e la penultima visita. Scusate se mi ripeto, ma che bella parola è “penultimo”?? Mi fa già pensare alla fine di questo lungo tunnel che è stata la chemioterapia. Tra l’altro sono stata la prima paziente della mattinata e alle 9.47 ero già fuori dall’ospedale. Mi sembrava un miracolo, viste le attese alle quali sono abituata…! Ero talmente felice che non ho neanche fatto caso alla pioggia e sono tornata a casa completamente fradicia.
I miei esami vanno benissimo, ho i neutrofili alle stelle (grazie, Mr. Zarzio!), il mio male muscolare dopo l’infusione dimezzata del farmaco sperimentale si è notevolmente ridotto e il buonumore sta crescendo giorno dopo giorno a livello esponenziale. Le dottoresse mi hanno già prenotato la TAC e la PET finali e mi hanno spiegato come sarà il “dopo”: facendo parte del protocollo di sperimentazione sarò più controllata del normale durante il primo anno. Dovrò fare gli esami ogni tre mesi; alternando una volta solo la TAC e una volta PET e TAC. Dopo un anno poi valuteranno se vedermi ogni sei mesi o se fare i controlli una sola volta all’anno. Già parlare del futuro post-chemio mi ha dato una carica pazzesca.
Siamo al countdown.
Manca pochissimo!
E ora, chi li spegne più i miei sorrisi???

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E poi impari …l’attesa

Quando nella tua vita incontri il cancro
impari
il valore e il peso
della parola ” attesa
Attesa di sapere il risultato della biopsia,
prima parziale, col quale una certa dott.ssa V.
ti dice “è un cancro”
e spero che non lo dica ad altri  come  me lo ha detto a me
(vedi qui)
Attesa del risultato completo della biopsia
per conoscere di che tipo sia il cancro che ti porti dentro,
 che caratteristiche abbia
come evolve, come si comporta
quali medicinali siano in grado di sconfiggerlo
Attesa che gli oncologi radiologi patologi
decidano come iniziare la strategia della terapia
e quali medicinali, intervento ecc ecc  siano più indicati.
Attesa di sapere se la chemio faccia effetto
sul cancro
e quindi eco di controllo ogni due, e poi ogni 6 infusioni
Attendi e guardi gli occhi del medico mentre ti fa l’eco per
capire dal suo sguardo come procedano le cose ancor
prima che te lo dica .
Attesa di essere chiamata per l’intervento con il quale
ti separeranno dal cancro
del quale sai dell’esistenza dentro di te
da almeno 7 mesi
Attesa di conoscere l’istologico dei linfonodi
per sapere il seguito della terapia
quale direzione prenderà
Attesa di essere chiamata per la radioterapia
e ad ogni seduta tanta inspiegabile stanchezza
Attesa di arrivare in fondo alla terapia
e chiudere la porta del DH
Attesa del controllo in follow up
per sentire le parole dell’oncologo
“niente campanelli d’allarme tutto ok”.
Attesa del prossimo controllo
con l’oncologo e gli esami prescritti
Attesa nel “dopo” di fare un ecodoppler dopo antibiotico
per sapere di quale natura siano le due palle nel braccio
che ha avuto la trombosi e poi pure la recidiva della trombosi
 e che iniziano a dare un pò fastidio con la loro
inopportuna presenza.
Attesa , impari così a confrontarti con il significato
profondo di questa parola
che ha tanti risvolti positivi.
Attendere è comprendere meglio
Attendere è imparare ad avere pazienza
e a non avere fretta.
E io non ne ho di fretta
sono lumaca, eh eh eh
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 Dieci anni fa, a quest’ora, ero nella mia cameretta a riposare dopo la mia prima chemioterapia.

Dieci anni sono tanti, ma a volte mi sembra siano davvero pochi per via di tutto il lavoro e il tempo che mi ha richiesto arrivare esattamente dove volevo essere, nelle condizioni in cui speravo di essere. E in parte, in buona parte, lo devo anche al Codice, a Oltreilcancro e a tutti voi che passate di qui. Grazie.

Dieci anni…in questi dieci anni ho guadagnato un tot di amici che senza malattia mai e poi mai avrebbero incrociato il mio cammino (e poi dicono che nel male non può esserci del bene!), ho avuto il terzo nipote, ho perso mia madre, ho guadagnato un papà (che c’era anche prima, ovviamente, ma che ora è un uomo e un padre migliore anche grazie al fatto che ci ho quasi lasciato la buccia), ho perso nonno ma per quanto mi riguarda non se ne è mai andato, ho trovato marito, ho avuto una figlia, ho imparato ad avere fiducia in me stessa e ad amare follemente il mio corpo, ho faticato e pianto per mesi e per anni per non lasciarmi sopraffare dalla rabbia per quanto mi era accaduto e dall’invidia verso chi raggiungeva, secondo me immeritatamente e senza sforzi (quanta arroganza, ragazzina…), i traguardi che io mi ero prefissata senza poterli raggiungere quando lo desideravo. Ho lavorato come un mulo e cambiato lavoro più spesso di quanto avrei voluto, ho imparato un mucchio di cose delle quali, francamente, non mi frega un accidenti, ho riletto varie volte Il Piccolo Principe e Il Fantasma di Canterville e ho fatto miei alcune centinaia di nuovi libri. Ho messo una croce sopra un buon numero di parenti, altri ancora li ho riscoperti e imparati ad apprezzare al di là delle imbeccate che ti vengon date quando sei ragazzino da chi ti dice cosa devi pensare di chi.  Ho pubblicato la mia parziale autobiografia a 27 anni (e, contrariamente a quanto avrei pensato a 15 anni, non si intitola “vi odio tutti e se non vi odio vi maltollero”), ho viaggiato un pochino, ho fatto del mio meglio per perché la mia esperienza potesse essere d’aiuto ad altri, mi sono tolta la soddisfazione di andare a vedere il concerto degli U2 a Dublino, ho imparato a gestire il senso di colpa perché se sono viva non è perché ho tolto qualcosa a qualcuno e mi voglio molto più bene di prima. Ho imparato cosa sia la pazienza, specialmente perché il Maschio Alfa con me ne ha tanta da otto anni, ho imparato che l’amore non è una debolezza e manifestarlo rende vulnerabili. Ho imparato e fatto tutto questo e molto altro, e questi dieci anni per me sono sacri.

Comunque, ho anche altre notizie: tanto per cominciare, i controlli che ho fatto ad agosto – e il cui risultato ho avuto solo pochi giorni fa – sono ok. Abbiamo ancora un piccolo dubbio ma è un dubbio che ci terremo necessariamente qualche anno, qualche anno durante il quale posso tranquillamente fregarmene. Comunque, in definitiva, quei momenti di down micidiali che ho ciclicamente sono dovuti al timoma e quindi nulla di strano. Domani poi mi ritrovo con l’ortopedico e vediamo anche di organizzare la sistemazione del piedone.

Poi, un’ultima cosa…prossimamente vi racconterò di un paio di eventi cui parteciperò in qualità di “esperta sul campo”, se vogliamo dire così, fatto sta che nelle prossime settimane passerò a Biella un po’di tempo…appena ne saprò di più, vi farò sapere…e leggere!

Ecco, questo è quanto. Dieci anni. Mamma mia, incredibile. Già dieci anni. Grazie di cuore a tutti, amici miei…ora scappo che stasera ho voglia di far festa…o anche solo di fare cose normali, da persona normale con impegni normali fino a stramazzare sul letto alle 22:00!

Dio, come amo questi dieci anni…

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3…2…1…BOM!

spilloIn ematologia purtroppo o per fortuna siamo sempre in tanti. Un’unica sala d’aspetto per tutti coloro che devono fare gli esami del sangue, le visite o la terapia… Poi ci sono loro: i pazienti in attesa della BOM, la biopsia osteo-midollare. Sono esattamente come tutti gli altri, ma la loro espressione per me è inconfondibile perché mi ricorda il mio stato d’animo di quel giorno: è un misto tra ansia, paura e curiosità, visto che non si sa ancora a cosa si va incontro. Ecco…oggi vi racconto la mia prima ed unica (per fortuna) BOM. Ho pensato tanto se parlarne o meno, perché non vorrei spaventare o impressionare qualcuno, ma poi mi sono detta: dopo tutto quello che ho scritto come posso non raccontare la cosa che più mi è rimasta impressa di questi mesi??? Quindi facciamo così: se siete in attesa di fare una BOM o vi impressionate facilmente finite di leggere qua, altrimenti ecco a voi come ho passato lo scorso 14 aprile.

“Valentina Esse in ambulatorio biopsie!” Mi alzo e mi avvio verso lo stanzino. All’interno c’erano 3 persone: il chirurgo, l’assistente ed un’infermiera. Chiedo se può entrare uno dei miei genitori con me, ma mi rispondono che l’intervento è un po’ impressionante e che quindi sarebbe stato meglio andare da sola (molto incoraggiante)! Mi hanno fatta sdraiare a pancia in giù e mentre loro si accingevano a preparare l’anestesia, io ero già nel panico più totale: se c’è una cosa che ho capito in questi mesi per ospedali è che quando il personale inizia a parlarti della sua vita o a farti domande con l’obiettivo di distrarti, allora puoi stare certa che andrai incontro a qualcosa di doloroso. E così è stato. L’anestesia brucia abbastanza: tocca con la punta dell’ago la parte dell’osso da prelevare. Già ne avevo abbastanza di quel leggero fastidio, quando l’infermiera mi ha preso le braccia, se le è messe intorno al collo e, a 10 cm dalla mia faccia, ha iniziato a raccontare dei fiori che aveva piantato nell’orto e di suo figlio in giro per il mondo. Tutta una scusa per tenermi ferma e “mentalmente impegnata”, ovviamente.

Non fanno in tempo a dirmi di stare immobile che sento QUELLO strumento. Io non so cosa fosse, né che forma avesse, ma mi sono creata un’immagine mentale in base al l’orribile sensazione che ho provato. Doveva essere un misto tra un levatorsoli e un cavatappi, o meglio, un levatorsoli filettato. Insomma, fatto sta che finché entrava nella carne l’anestesia ha funzionato alla grande, ma appena ha iniziato a girare per entrare avvitandosi nell’osso del mio povero bacino io credo di aver recitato mentalmente in un solo secondo tutte le imprecazioni conosciute e non. Ricordo di avere anche chiesto all’infermiera di smettere di parlare dei suoi maledetti fiori. Una volta inserito il levatorsoli, ecco arrivare il peggio del peggio. È bastato un colpo laterale del chirurgo e… CRIC… il pezzo d’ossicino si è staccato di colpo! Brrrr!  Io quel cric non lo scorderò mai più, e non scorderò neanche la successiva sensazione di sottovuoto che ho provato mentre finalmente l’osso veniva estratto. Praticamente è come essere una bottiglia di spumante in attesa di essere “stappata”…

Alla fine mi sono rialzata. Il chirurgo mi ha chiesto se volessi vedere il mio pezzetto di osso: un cilindretto sottile che galleggiava in una sostanza gelatinosa trasparente. Neanche così impressionante. Sono uscita dallo stanzino dopo un quarto d’ora di tortura tenendomi premuta la benda. Al di sotto un semplice puntino. Incredibile come una cosa così fastidiosa possa non lasciare tracce e durare così poco. Non ne vale neanche la pena…

 

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Perché io?

Marmot_66 Perché io?
È una domanda che probabilmente ogni paziente oncologico si è posto almeno una volta e che può avere più di un significato.

Il primo, il più immediato, il più comune è Perché mi è successa questa cosa orribile?
Questa domanda dà il via a una sorta di autoanalisi per cercare di capire. Forse nella tua famiglia c’è qualche familiarità per le patologie oncologiche, o forse no. Ti chiedi comunque dove hai sbagliato, magari sulla scia di qualche teoria più o meno scientifica sulle cause del cancro, che ti porta a mettere in discussione tutto quello che fai, mangi, bevi, respiri, pensi. Robe che se non ti uccide il cancro, lo fanno l’ansia e il senso di colpa.

C’è anche una seconda sfumatura: Perché proprio io e non qualcun altro?
Ti guardi intorno e vedi quello che fuma cinquanta sigarette al giorno, il forte bevitore, il divoratore di cibo spazzatura… Qualche volta fa capolino anche il pensiero, politicamente scorretto, che ci sono tanti bastardi di cui il mondo farebbe volentieri a meno, ma loro non hanno avuto il cancro e tu invece sì. Ma chi sei tu per decidere chi merita una buona salute e chi no?

Quando trascorre un po’ di tempo dalla diagnosi, cosa decisamente auspicabile, accade che per qualche compagno di (dis)avventura il viaggio finisca tragicamente, mentre tu prosegui il tuo. Allora può scattare la domanda da sindrome del sopravvissuto: Perché io sono ancora qui mentre lui/lei non ce l’ha fatta? Come se dovessi vergognarti di essere vivo. Non è una bella cosa e soprattutto non serve a riportarli indietro.

Al contrario, può succedere che il tuo percorso oncologico si riveli particolarmente accidentato: effetti collaterali pesanti, malattia resistente alle terapie, recidive… Mentre invece qualche altro paziente supera con relativa facilità il periodo delle cure e arriva felicemente a completare il follow-up senza ulteriori complicazioni. Perché io devo ancora combattere mentre lui/lei è già guarito? L’invidia è una brutta bestia…

Perché io?
Ho fatto i conti anch’io con questa domanda, in tutte le sue sfumature. Ma li ho chiusi sempre velocemente, perché sono inutili: non servono a stare meglio, anzi, se ci si dedica troppa attenzione diventano fonte di stress.
Perché mi è successo? Non lo so. Ma probabilmente è stata solo sfiga.
Perché proprio a me? Non lo so. Ma perché no?
Perché io sono ancora qui mentre Anna, Anna Lisa, Lara, Gabriele, Alessio e tanti altri non ci sono più? Non lo so. Ma mi mancano tanto
Perché a distanza di dieci anni dal primo insorgere della malattia sono ancora alle prese con controlli bimestrali? Non lo so. Ma l’importante è esserci e poter gioire dei piccoli e grandi traguardi raggiunti, peraltro non senza difficoltà, dalle persone che mi sono care. Come Romina, che tra poco festeggia dieci anni, ma quel post di due anni fa è così meraviglioso che vale sempre la pena di rivederlo. Oppure gli undici anni di Rosie, i cinque di Mamigà, i sette Claudia e tanti altri.

Perché io? Boh. Non lo so. Non importa.

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Cinque anni senza te. (post lungo)

Vi avviso da ora: il post è lungo. Volevo scrivere poche parole, ci ho provato, ma rileggendole mi sono detta no, oggi dentro di parole ne ho tante, non mi va di sintetizzarle. Non oggi, non in questa occasione. Perciò se avete solo cinque minuti di tempo, ripassate quando e se siete disposti a perderne di più per leggere. Parecchi di più.

Vediamo un po’… da dove inizio?
Inizio dal principio. Dal primo post che scrissi sull’argomento. E’ breve. L’ho scritto un martedì mattina, il 9 febbraio 2010, alle cinque e mezzo, dopo una notte in cui ho dormito si e no un paio d’ore. Non è difficile capire il perchè, leggendolo. Mi meraviglio di averle dormite, quelle due ore.
E il post dice così. Copincollo (e riformatto, perchè la formattazione era quella di Splinder).

“Proprio non riesco a tenermi tutto dentro. Non ce la faccio. Forse scrivendolo esorcizzo la paura, a costo di sembrare sciocca o esibizionista. Ma il blog è mio e visto che quello che sto per intraprendere non è proprio un viaggio di piacere, non posso più scrivere solo vaccate.
Ho il cancro.
Ho ricevuto la notizia ieri mattina. Ho un tumore al seno. A me non piace definirlo “brutto male”, come fanno in molti, non mi piace nemmeno dargli altri appellativi per farlo apparire meno grave, meno reale, o farlo passare in sordina.
La bastonata è stata violenta. Ho l’impressione che il mio corpo mi si stia rivoltando contro, prima con la spondilite, ora con questo. Mi domando cosa gli ho fatto di tanto male per essere ripagata così.
Vi prego, non ditemi cosa devo o non devo fare. Non è il caso. Da domani mi affido alle cure del reparto oncologico di Latisana, mi farò aiutare dalla psicologa del centro, e mi lascerò sostenere dall’amore della mia famiglia, tutta quanta, non solo mio marito e mio figlio.
Guarirò. Sono le mamme che accompagnano i figli il primo giorno di scuola, che si fermano due metri più in là del cancello per non farsi vedere piangere, e io voglio essere lì come le altre, fosse con un cappellino o con un bandana in testa, ma voglio essere lì. E quando sarò vecchia voglio rileggere queste pagine come un brutto, bruttissimo ricordo.”

E’ iniziata così. Anzi no, il mio racconto è iniziato così. La “faccenda” è iniziata concretamente il giorno prima, un giorno assurdo, che ancora ricordo tanto perfettamente quanto ricordo di essermi sentita in una dimensione alternativa, parallela, sopra le righe, come catapultata in una fiaba, da protagonista e spettatrice in una volta sola. Solo chi ci è passato lo sa. Solo chi si è sentito dire le parole “c’è un tumore” può comprendere. Parti per la tangente. Di tutto quello che il medico che hai davanti dice dopo, afferri solo dei tratti, qualche verbo, le parole più pesanti. Io ho perso le virgole, ho perso l’espressione del medico mentre parlava perchè davanti vedevo solo la fòrmica pallida della scrivania, e sentivo rimbombare nella testa solo le parole che uno non vorrebbe sentire mai rivolte verso sè stesso, senza peraltro comprenderle: “chemioterapia, resezione, cicli, radio, flebo, ormoni, chirurgo, menopausa, perderà i capelli, effetti collaterali, un anno o poco più, anticorpo monoclonale, linfonodi, scavo ascellare, G2, niente più figli”. Bam! Tutte in una volta, scaricate come un pacco pieno di ritagli di stoffa che devi ricucirti a casa uno per uno, per capire che disegno salta fuori da quel patchwork fuori dal mondo e che soprattutto non hai progettato tu.

E poi ho alzato gli occhi, ho girato la testa verso destra, e ho incontrato lo sguardo di mio marito. Ah già, c’era anche lui. Me ne sono ricordata solo dopo. Dopo la raffica di paroloni pesanti. Aveva il volto paonazzo, gli occhi lucidi. Mi guardava. E in un attimo compresi che era spaventato almeno quanto io mi sentivo fuori posto. Me lo disse solo molto, molto tempo dopo, solo dopo quattro anni cosa pensava in quel momento: pensava che mi avrebbe perso. Ma a me, sono sincera, il pensiero “morte” quel giorno sfiorò la mia testa solo per un momento, poi lo relegai in un angolo, non lo volli mai più prendere in considerazione. Successe quando il dottor Clooney parlò di “statistiche di sopravvivenza”, e disse qualcosa tipo “la sopravvivenza a cinque anni per questo tipo di tumore, con le terapie del caso, è del novanta e qualcosa per cento”. Lì per lì non capii, e mi feci ripetere il concetto, perchè io di tumori proprio non mi sono interessata mai, e dico “per fortuna”, perchè significa che ho avuto la grazia di non dovermene occupare. E chiesi nella mia ignoranza se significava che sarei vissuta solo altri cinque anni. Mi rispose che no, il concetto era un altro, e me lo spiegò per bene.

La verità? Non ricordo cosa disse con esattezza. Ma ricordo che sapevo di dover attendere cinque anni per sentirmi più sicura, che se trascorrevano cinque anni dal giorno dell’intervento (che si sarebbe svolto da lì a mesi, dopo la chemioterapia) senza che si ripresentassero recidive o metastasi, il rischio di riammalarmi di cancro si sarebbe abbassato drasticamente. O, come lo semplificò la mia mamma (che non è medico, ma è la mamma) in seguito, “se ti passi i zinque anni ti xe fora. Io dize tutti!”. Forse la mia mamma l’ha banalizzato un po’, ma l’espressione è davvero bella.

Feci l’asportazione del linfonodo sentinella la settimana successiva, che risultò poi metastatico.
Mi feci tutto il percorso di chemioterapia sommata alla prima tranche di infusioni di Herceptin, con tutto il corredo di effetti collaterali a breve e a medio termine, di paure, di incertezze, di domande di cui mi sono ben sfogata su questo blog al tempo. E fu vita. Che quando mi sento dire “puoi dimenticarla” rispondo che no, non sia mai. Perchè non mi sentivo una sopravvissuta come non mi ci sento ora, mi sentivo viva e basta. Con un problema grosso come un macigno da affrontare, ma viva.

Finchè il 24 agosto feci l’intervento. Se ne andò una fetta del mio seno, e un pugno di linfonodi ascellari con lei.
E iniziai a contare.
2010, partenza; 2011, 2012, 2013, 2014.

E 2015. 24 Agosto. Domani.

Questo giorno, al tempo, sembrava lontanissimo. Ed invece eccolo. Ci siamo arrivati. E i pensieri nella testa sono confusi.

Mi sento ottimista: i controlli sono sempre andati bene, con qualche intoppo, qualche nodo particolarmente noioso da sciogliere, ma risoltosi sempre bene.
Oggi ho le mie cicatrici, chiare ma larghe, cicatrizzo male io. Sotto alle cicatrici diversi granulomi che rendono dolorose le visite, le mammografie e le ecografie, ma così devono rimanere. Non ho un bel rapporto con il mio seno rovinato. Non vado volentieri al mare per non mostrare i segni della battaglia, in realtà il fastidio ce l’ho io ad averli sotto agli occhi, che finchè ho il reggiseno imbottito che mimetizza l’ambaradan e la maglietta che copre il tutto va tutto bene, ma in costume mi sento a disagio. Ci sono due cicatrici, tre con quella del port, e c’è il buco, l’avallamento. Che non si può riempire, perchè sta sopra, tra i due quadranti superiori. Anzi, dove c’erano i due quadranti, perchè non ci sono più. Non ne parlo mai con nessuno, perchè le prime volte che accennavo a qualcuno di questo mio disagio mi sentivo rispondere che l’aspetto estetico è la cosa di minore importanza; sarà anche vero, ci arrivo da sola a capire che meglio con un seno visibilmente segnato, di volume dimezzato e diverso dall’altro ma viva che tre metri sotto terra, ma mi sono stufata di ribattere “vuoi provare? Ti prendi anche il resto però, altrimenti non vale”. E’ come augurare il cancro a qualcuno. E non voglio fare la parte della merdaccia. Non è corretto. Anzi, è proprio meschino. Ma a volte ti viene dal cuore questo moto di acidità, è inutile fingere che non sia così.

Ma se sei donna, sai anche che il seno non è solo carne che sporge, soprattutto se sei giovane. E’ come quando il ciclo viene a mancare. Io senza ciclo sto bene, ma non venitemi a dire che a 37 anni una donna che se lo vede interrompere a forza e a vita (anche per motivi diversi dal mio) grida al mondo quanto è felice, o anche solo che non le importa nulla.

Ci sono i controlli. I primi due anni sono stati permeati da (normale, dicono) angoscia costante, poi via via questa è andata alleggerendosi fino a diventare un po’ di semplice nervosismo a ridosso degli appuntamenti. Ad ora sono ancora ogni 6-8 mesi, il prossimo appuntamento con l’oncologo ce l’ho a gennaio 2016, e tra novembre e dicembre c’è tutto l’ambaradan di mammografia, eco mammaria, visita ginecologica, markers, cardiologo, menatine varie ed eventuali. Con una corsa veloce dall’oncologo anche a dicembre solo per cambiare la terapia ormonale.
La terapia ormonale inizialmente era stata programmata per cinque anni, poi è stata prospettata una proroga a dieci. L’oncologo sostiene che, vista l’età e il tipo di tumore che avevo, è più sicuro. Decapeptyl e Tam fino a dicembre, e a dicembre mi cambia il tipo di pastiglia. E facciamoli questi ulteriori cinque anni di caramelle. Facciamoli, se serve a tenere stretta la buccia.

Di chemio e radio mi sono rimasti solo pochi segni, nessuno ad oggi visibile dal di fuori. Ho una cascata di capelli lunghi, il cortisone che mi davano prima e dopo le infusioni e che mi aveva gonfiato come un pallone se ne è andato (facendomi ritrovare finalmente una figura di tutto rispetto, e soprattutto in perfetto normopeso, cioè con una BMI ottima), attiro le zanzare come il miele le mosche (a differenza di prima della chemio, che manco mi si filavano), ho una cicatrice da radio sul polmone sinistro che fa impallidire i radiologi ogni volta che mi fanno le lastre (e devo ogni volta spiegare loro cos’è quell’ombra prima che mi spediscano sotto ad altri scanner), non posso tenere lo smalto sulle unghie delle mani per più di quattro o cinque giorni di fila altrimenti si sfaldano (e prima della chemio le pittavo regolarmente che erano più dure dei sassi), a periodi soffro di reflusso, la pelle sotto al seno sinistro è più scura (dove avevo l’ustione da radio, ero rimasta in carne viva), ho tutta la parte di carne dietro alla spalla e la parte dietro e sotto a tutto l’avambraccio a sinistra completamente insensibile. Cioè lì mi posso graffiare, tagliare, mi può pungere una vespa, che non sento assolutamente nulla. Ma uso il braccio come se non fosse successo mai nulla, mantengo solo l’accortezza di non farmi prelevare da lì il sangue nè misurare la pressione, ligia agli ordini di chi di dovere. Sotto all’ascella sinistra non mi cresce che un gruppo sparuto di quattro o cinque peli in croce: risparmio in rasoi.
Altre cose non mi vengono in mente.

Dentro di me mi porto tutto il resto. Che non è sofferenza, non più. Non è nemmeno paura. Mi sento di dire che è vigilanza. Pura e semplice vigilanza.
A chi tempo fa mi disse “passati i cinque anni rischi di ammalarti quanto me che non ho avuto il cancro, scommetto”, risposi una cosa molto semplice: che “tu che non lo hai avuto mai non fai le mammografie e le analisi dei markers una volta l’anno  per tutta la vita, non prendi farmaci per sopprimere la produzione ormonale, non vedi gli oncologi, un motivo ci sarà, ti pare?”.

Io però, appunto, a tutto questo rischio non ci penso quasi mai. Non si può vivere tutta la vita convinti che ci si riammalerà di tumore solo perchè lo si ha avuto una volta. E’ vero che a volte succede, ma come anche no, siamo realisti. La mia nonna paterna ha fatto la mastectomia bilaterale da giovane, ed è morta vecchia, dopotutto. Malata, ma non di cancro. E se la mia prognosi è eccellente, e me lo dicono gli oncologi, e lo confermano gli esami, io vado avanti via veloce, portandomi nella testa ogni giorno i problemi che possono avere più o meno tutti: il mutuo da pagare, un ragazzino che cresce, le piccole noie domestiche, un occhio vigile verso mia madre che invecchia e due verso i suoceri che invecchiano molto più rapidamente, l’artrite che ogni tanto mi piega e mi blocca, due ernie cervicali e altre rognette fisiche di poco conto, e perdendo anche il quarto d’ora frivolo nel dilemma dello scegliere il colore giusto di un rossetto, del giusto soggetto da ricamare su un trovaforbici o del modo alternativo di cuocere il pollo per la cena. Ne ho tutto il diritto, visto che per un pezzo di strada non è potuto essere così. Il cancro non è il primo dei miei pensieri. Rivolevo le mie noie di prima, e ora che sono stata accontentata me le tengo belle strette e mi ci lamento anche sopra ogni tanto come fanno tutti, che va benissimo così. Ho dato e in abbondanza, e adesso, cappero, prendo.

Vigilante. Con la vita di chiunque altro per le mani, i pensieri che avevo prima di ammalarmi per la testa al mattino appena sveglia, ma vigilante quando se ne presenta la necessità, che tradotto significa “non dimenticare il tamoxifene la sera”, e altre piccole cose. Serenamente.

A cinque anni di distanza (ma questo anche molto prima) ho imparato che se ho avuto il tumore al seno posso prendermi una bronchite come chiunque altro senza che sia necessariamente una possibile metastasi polmonare, che se mi fanno male le ossa è perchè soffro di artrite e di artrite non si muore, non corro dal medico se non lo ritengo estremamente necessario e se prima non ho tentato di curarmi da sola come mi è stato insegnato in questi anni (ammalandoti gravemente tante cose le impari).

E poi ci sono i tumori degli altri; ho imparato che se io parlo di tumore con la facilità con cui parlo di cosa ho mangiato a pranzo non è detto che per gli altri debba essere così, che le storie degli altri riguardo alla malattia vanno accolte ma non giudicate, che davanti allo Spettro siamo tutti diversi. Ci ho preso anche delle belle nasate, lo confesso. Le figure demmerd si sono sprecate in questi cinque anni. Ma credo che il mio apprendimento del concetto “a volte è meglio tacere” sia a buon punto. Che io sono tarda a capire le cose, ma ci arrivo.
Ci sono le lezioni di vita. C’è stato un lutto profondo e doloroso. Ci sono i cambiamenti al modo di guardare alle cose, e c’è l’apprezzamento ancora più forte verso le cose leggere della vita, le piccolezze, perchè sono quelle che permettono di fare scorta di buon umore, e di energia da usare per sopravvivere quando a pensare alle cose pesanti ci si è costretti. Ci sono i rapporti di amicizia che il cancro, suo malgrado, mi ha portato a stringere, e di cui oggi non so se potrei fare a meno, perchè sono speciali. Anche i legàmi che sono stati rotti dal cancro stesso erano speciali. A volte mi chiedo… se fossi rimasta sulle mie durante la malattia, senza guardarmi attorno, forse avrei sofferto di meno in questo senso. Poi però mi rendo conto che avrei perso anche il resto. Ne sarebbe valsa la pena?

E ancora si, per certi versi la “faccenda” mi ha anche abbruttito. Non parlo nel senso fisico, ma nei pensieri. Non riesco più a tollerare chi si dà per morto senza prima aver provato a battersi per rimanere in vita, senza aver cercato di trovare una soluzione, qualsiasi sia il problema. Non tollero l’arrendevolezza. Non tollero più, e questo è un mio limite, chi parla della sua malattia, qualsiasi essa sia, come se fosse l’unica persona malata sulla terra, come se “come lui/lei nessuno mai”, e “nessuno può capirmi”. Ho il vomito quando sento dire “beata te che sei giovane, che quando si invecchia iniziano i problemi”, che io non porto scritta in fronte la mia storia perchè non ne ho il dovere, ma a volte sbattere in faccia la realtà alle persone (solo ed esclusivamente quando non ne potevo proprio più di ascoltare passivamente) ha chiuso tante belle bocche. Mi irrita moltissimo quando sento giudicare la felicità di qualcuno dal suo aspetto fisico, dal vestire, dal trucco, dalle movenze, seguita dalla frase “beata lei/lui, si vede che sta bene, io invece…”. Ecco, sono le situazioni in cui taccio per non rispondere male, per non ferire, perchè non ne ricaverei nulla. Ma faccio davvero fatica.

E’ sbagliato. Lo so che non dovrei prendermela. Ma c’è anche questo.

Ecco, domani per me è festa. Ma festa vera, con tanto di torta, che ho promesso al Power di fare la cheese-cake a casa ma non ne ho nessuna voglia, ho mal di schiena in questi giorni e fatico a stare in piedi, perciò mi sa che noi si fila in pasticceria prima di pranzo. Avrei voluto fare una festa grande con tutta la famiglia, ma qualcosa mi trattiene. Ho paura di non essere capita. Perchè cinque anni hanno un significato particolare per chi sa, ma non dicono niente a chi non lo vive, e io non ho voglia di stare a spiegare, anche se mi viene voglia di urlare al mondo con un megafono dalla cima del tetto di casa mia “gente, ho passato i cinque anni, sono viva, vi rendete conto? L’ho spuntata! L’ho fottuto!”. Dopotutto tutti siamo impegnati a vivere la nostra personale vita, ognuno ha i suoi problemi e i suoi successi, e questo traguardo riguarda solo me. Me e chi mi vive accanto ogni giorno. Che ha ancora un po’ paura di perdermi, me lo ha detto. Ma da oggi di meno.

Mi sento come se da oggi ogni giorno fosse, per me, un giorno regalato.
Una vita gratis.

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Happiness is a journey … not a destination

Happiness is a journey

not a destination.


Santo cielo, quanto mi piace questa frase!

L’ho trovata sulla copertina del quaderno

che mi ha regalato Pia conosciuta 

al laboratorio di scrittura Sentieri di Parole

ed è veramente per me.

Mi calza come un calzino .


Perchè è nelle piccole cose che 

si incontrano 

lungo il cammino

che sta la felicità.


In realtà ero sempre attenta ad apprezzare le piccole cose

e quindi ogni cosa era motivo di gioia


Poi c’è stato lui, il K, il cancro

e qualcosa è cambiato.

Ora c’è l’incubo della Paura che torni

o che ci siano silenziose e nascoste metastasi

e che non ce ne accorgiamo

tuttavia io

  sostanzialmente 

nel cammino 

apprezzo ciò che incontro.

E tanto.

Incontrare il cancro

è un’esperienza traumatica

ma…..

incontri tante persone speciali


medici speciali


infermieri e infermiere speciali


persone che condividono con te il cammino

e che diventano persone speciali


E la lumachina

nel suo lento camminare 

è grata alla Vita 

per tutto quello che incontra

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Kit in chemioterapia

Rovistando nell’armadio, oggi mi è capitata fra le mani la
mia borsa rossa.
E il ricordo del periodo della chemioterapia di anno scorso
è saltato fuori dal cassetto dei ricordi.
Una volta a settimana andavo a fare le analisi
e, se i valori erano a posto,
il giorno dopo c’era la chemio.
Avevo il mio kit per quel giorno.
Maglietta nera a collo alto ma a maniche corte
per praticità avendo il Picc
e poi perchè solitamente con la terapia
avevo sempre caldo in DH,
pantaloni neri.
Sempre lo stesso abbigliamento non
immagino cosa abbia pensato chi,
per 18 mesi mi ha visto vestita allo stesso modo.
Era un mio modo per sentirmi a mio agio
in quella situazione
Avevo bisogno di continuità,
solo per la terapia perchè
nella vita , quella reale io sono tutto fuorchè abitudinaria.Dunque , l’abbigliamento era quello, sempre lo stesso.

Poi c’era la mia borsa rossa.
Non so bene perchè mi comprai una borsa rossa
io ho sempre odiato il rosso
ma va a capire come, in certe situazioni , funziona la mente!!!!
E dentro c’era di tutto.
Le solite cose indispensabili ma poi
c’era il mio kit per la chemioterapia:
Bottiglietta d’acqua:non so perchè ma mi veniva il panico
se la dimenticavo, che poi a volte neppure la bevevo

ipod con cuffiette: la musica preferita aiuta a scacciare pensieri cupi

tre pacchettini di fazzoletti di carta: perchè spesso mi sanguinava il naso

il kindle, ma tanto poi facevo fatica a leggere il cervello si intorpidiva
anche perché con l’antistaminico mi facevo delle dormite galattiche

il mio quaderno giallo smemoranda: per scrivere, sia mai che mi venisse in mente un’idea
e che sfuggisse se non avevo nulla su cui scrivere

cellulare : sempre ben carico perchè casomai avessero bisogno i miei figli…Ritrovare questa borsa rossa nell’armadio è come essere  riportata indietro di un anno
guardo quanta strada ho fatto,  terapie, intervento
lo so che si pensa che dovrei , ormai lasciarmi tutto alle spalle
ma non ci riesco, il pensiero ritorna  sempre lì.

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Cinque anni, una vita

icoariannaE così sono passati cinque anni. Cinque anni da quel maledetto 1° marzo in cui ho incontrato il fattore C. Cinque anni da quel 26 marzo che lo ha tolto dal mio corpo. Cinque anni da quel 24 aprile che mi ha tolto i linfonodi e lasciato una piccola invalidità al braccio sinistro. Cinque anni da quel 24 maggio in cui ho fatto la prima puntura di Enantone e ho abbandonato per sempre la mia vita fertile. Cinque anni da quel 19 luglio in cui ho iniziato 36 sedute di radioterapia. In tutti questi Cancer-versari pensavo che avrei scritto per parlarne, ma non sono riuscita perchè i miei anniversari si sono mischiati ad altri avvenimenti, alcuni dei quali tremendi: alcuni amici se ne sono andati stroncati da questo male, e la loro partenza mi ha mandato in pezzi, mi ha fatto sentire ingiustamente graziata da una sentenza comune…

Poi l’evento felice, mia figlia si è diplomata e anche questo mi ha riportato a quei giorni, mentre lei sosteneva l’esame di terza media, la prima prova della sua vita, e io iniziavo la cura col Tamox e cercavo di essere positiva dicendole che avremmo terminato insieme: io la cura e lei il liceo. E ora è partita, prima le capitali europee, ora il campeggio in montagna,  e noi due a doverci reinventare una vita da soli, sempre genitori ma in modo diverso, meno presente.

Ed ora pare facile  il futuro davanti, ma mi spaventa ogni giorno non dover prendere nessuna medicina, e il sonno perduto nelle smanie della menopausa indotta non l’ho mai più ritrovato, nè tranquillanti nè tisane riescono a riportarmelo indietro, così come non si possono riavere gli anni trascorsi.

Sento che questi cinque anni di cure hanno accelerato il ritmo che avrebbe avuto il mio invecchiare, a 47 anni ero nel pieno della forma e della forza fisica, che non ho più ritrovato, ed ero convinta che sarei invecchiata piano, come mia madre e mia nonna, belle sino a tarda età, forti ed energiche come io non sono mai stata.

Ma soprattutto non ho più ritrovato l’entusiasmo e l’energia vitale che avevo, e che ho speso in questa lotta, per non mollare di un millimetro nei confronti del male, per arrivare a questo traguardo. E c’è una cosa che non mi abbandonerà più e che prima non conoscevo: la paura. La paura che torni.

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